"Viaggiare è una brutalità. Obbliga ad avere fiducia negli stranieri e a perdere di vista il comfort familiare della casa e degli amici. Ci si sente costantemente fuori equilibrio. Nulla è vostro, tranne le cose essenziali"
-Cesare Pavese
45 Min
Diario di Viaggio
Diletta Leogrande
15/11/2023
La Partenza
Taranto, 31 ottobre 2023… il Wrangler è carico ed anche io lo sono, in procinto di partire domani alla volta della Tunisia, dove trascorrerò un breve periodo di vacanza con i miei genitori. Per mio padre è la nona volta, su sedici sortite africane, che si dirige su questa sponda del mediterraneo, e non ha avuto difficoltà a convincere me e mia madre a seguirlo in questa sua ennesima escursione, ascoltandolo nel ricordare quante emozioni tale terra gli ha regalato. Il giorno successivo, ci imbarchiamo a Civitavecchia dove ci attende il traghetto che ci condurrà a Tunisi, dove sbarchiamo il giorno seguente. Sulla nave vivo già un clima differente, attorniata da tunisini residenti in Italia, che approfittano del breve ponte festivo, per ritornare al paese d’origine. Sono colpita dal loro bivaccare per terra nei corridoi o in prossimità dei tavoli del salone ristorante, sicuramente animati dall’esigenza di risparmiare sui costi della cuccetta, utilizzata in gran parte solo da noi europei. Comincio a familiarizzare con le donne con il capo velato, e mio padre mi spiega le differenze tra i vari copricapi femminili delle etnie islamizzate, puntualizzando che in Tunisia nei grandi centri urbani, vige un …allentamento della tradizione e non è infrequente trovare per strada donne con i capelli non raccolti sotto un velo e, specie se in giovane età, con abiti molto simili ai nostri.
Arrivo a Tunisi
Dopo lo sbarco e la estenuante attesa in coda al varco doganale del porto di Tunisi, ci dirigiamo ad Hammamet, che rappresenta la prima tappa del viaggio e dove passeremo la prima notte sul continente africano. Dopo la sosta per cambiare la valuta, acquistare schede telefoniche e rifornirsi di gasolio, - dal costo di circa 80 centesimi di euro al litro! –, raggiungiamo dopo circa un’ora, questa città affacciata sul mediterraneo. Hammamet, specie nel quartiere Yasmine dove abbiamo prenotato un hotel, costituisce un centro a forte vocazione turistica, che ci accoglie con un traffico rallentato da posti di blocco della Guardia Nazionale, preposta principalmente al controllo capillare del territorio, specie nelle zone frequentate da noi viaggiatori europei, cui viene riservato un trattamento di cordiale disponibilità da parte delle forze dell’ordine. Gli standard degli alberghi qui nella parte nuova della città, Hammamet Yasmine, sono decisamente elevati e sovrapponibili a quelli europei di speculare classificazione. Dopo aver cenato assaggiando il primo dei tanti cous-cous che costelleranno i giorni successivi, visitiamo a sera inoltrata la medina della città, facendoci accompagnare dal tassista che, per qualche dinaro extra tassametro, ci indicherà le zone meritevoli di qualche scatto fotografico.
Il giorno seguente lasciamo Hammamet con direzione Sbeitla, per visitare il sito archeologico di Sufetula, per poi dirigerci all'oasi di Chebika.
Sbeitla
Percorriamo la statale che conduce alla parte interna della nazione, ed il paesaggio che mi scorre intorno, offre una visione dei luoghi, animati da quanto ho immaginato prima del contatto con questa realtà. I margini delle strade sono affollati da gente vestita con abiti europei, affianco ad altra con lunghe tonache e copricapi caratteristici. Questa umanità è assediata da altra a bordo di auto, rigorosamente utilitarie malmesse o pick-up stracarichi di bestiame o masserizie di svariata merceologia, che attendono pazientemente che la strada si liberi da carretti trainati da muli o dagli stessi ambulanti che arrancano sotto il peso della mercanzia.
La strada principale attraversa una miriade di piccoli agglomerati urbani, e confluisce in piazzette che offrono un luogo di incontro e vendita principalmente di generi alimentari. Più a margine si affacciano locali aperti al pubblico, sempre attorniati da ambulanti seduti per terra con di fronte un lenzuolo dove campeggia varia mercanzia. In alcuni di questi locali viene macellata e cotta sulla brace, la carne di pecore…rassegnate e legate nei pressi dei fumanti fornelli che le arrostiranno di lì a breve.
In altri pseudo-bar vedo gente seduta che fuma il narghilè o sorseggia il caratteristico the alla menta, in un clima di ozioso trascorrere del tempo, perturbato da un traffico convulso, che concede però educatamente il passaggio a frotte di adolescenti, con tracolle piene di quaderni, verosimilmente dirette alle scuole che incontriamo all’ingresso ed all’uscita di ogni paese che attraversiamo.
Comincio a sprofondare piacevolmente in questo ambiente così differente da quello a me consueto, ed osservo, attraverso i vetri oscurati della Jeep, una umanità varia e variegata, con gruppi di bambini che si affiancano festanti a chiedere un bon-bon o uno stilò, sotto lo sguardo apparentemente distaccato di giovani madri o fratelli più grandi, che osservano quanto avviene sorridendo con spontanea giovialità.
Procedendo per la strada, finora ben asfaltata ed in alcuni tratti dotata di pubblica illuminazione specie in prossimità dei centri abitati, giungiamo a Sbeitla, dove visitiamo subito Sufetula, un vasto insediamento urbano di epoca romana che, con mia grande sorpresa, risulta molto simile a Pompei per estensione e stato conservativo.
Purtroppo noto diffusa incuria, dovuta all’immondizia che assedia le vestigia murarie, in parte attorniate anche da improvvisati accampamenti di locali, che non si fanno scrupolo di risiedere in quei luoghi senza alcun controllo, giungendo a cucinare sul fuoco i loro pasti al riparo da mura, un tempo residenza dei mercanti romani. Notevole il complesso del Capitolium templi affiancati e perfettamente conservati, anche per la favorevole situazione meteo-climatica, con scarse precipitazioni, che poco hanno intaccato nei secoli l’antico splendore delle vestigia davvero suggestive.
Nessun altro turista è in giro lì oltre noi, eccezion fatta per la coppia di orientali praticamente presente in ogni dove, con l’ombrello aperto al sole, la Nikon d’ordinanza e la mascherina anti-covid, ormai desueta in Europa.
Oasi di Chebika
Il giorno seguente lasciamo Sbeitla, non senza aver preparato un caffè con la piccola cucina a butano che completa l’armamentario da campeggio del nostro veicolo, all’oasi di Chebika, all’ombra di un rigoglioso palmeto da datteri, che proprio in questo periodo vengono raccolti mobilitando praticamente tutta la popolazione rurale. Visitare un’oasi, la prima di altre che costelleranno il viaggio verso sud, rende l’idea dell’importanza della risorsa idrica e della sua incommensurabile e preziosa insostituibilità, spesso sottovalutata da noi europei. Tutto ruota intorno ad una pozza d’acqua apparentemente insignificante, ma portatrice di benessere ed opulenza, per l’agricoltura, che lì prospera ed apporta sostentamento, e per la gente, che trova un microclima favorevole ad un benessere ambientale, che non ha eguali in quelle zone aride e torride. Le oasi vengono preannunciate da greggi di pecore e capre –pochissime le mucche e visibilmente smunte e smagrite rispetto le nostre-, che brucano gli arbusti che l’attorniano. La vegetazione va progressivamente estendendosi in prossimità della fonte idrica, donando al suolo prima brullo, un aspetto ora verdissimo e lussureggiante, tra lo svettare delle palme ed una intensa coltivazione orticola e con alberi di agrumi e melograni.
Il contrasto cromatico tra il colore delle rocce e della sabbia, dopo ore di monotonia ora sostituito da un verde brillante così inatteso ed inconsueto, rende poi questi luoghi di grande fascino per noi stupiti spettatori, che sgraniamo gli occhi al cospetto di tanta lussureggiante vitalità vegetale, fonte preziosa del benessere delle popolazioni che nei dintorni vivono stabilmente. Domani saremo, dirigendoci verso ovest in prossimità del confine con l’Algeria , a campeggiare nelle cosiddette oasi di montagna, tra Tamerza, Tozeur e Redeyef, dove i palmeti punteggiano le propaggini delle alture che separano i due stati, con elevazione collinare intorno i 500 metri s.l.m., offrendo un paesaggio del tutto inconsueto rispetto a quello che ho lasciato alle mie spalle, dominato dalle grandi pianure coltivate in parte ad olivi, incontrate fino ad ora.
Tamerza
Prepariamo il bivacco con un fuoco che rischiarerà le tende aperte sotto un grande albero d’acacia. Dopo la cena a base di piadine e scatolame, ci assopiamo nel silenzio più assoluto, sotto un cielo stellato che non si riesce a commentare per la sua, per noi europei, sconcertante luminosità. Il mattino seguente attraversiamo un lungo torrente che si snoda tra le gole di Tamerza, fino a raggiungere l’omonima oasi sotto una piccola cascata che alimenta una miriade di rigagnoli che, irradiandosi da quella fonte, colonizzano con il verde ogni prossimità altrimenti arida.
Dopo aver consumato del pollo con verdure cucinate nel tajine di terracotta, presso una locanda del luogo, e visitato il canyon del Midès, con suggestive costruzioni in pietra abbandonate dalle popolazioni locali dopo una disastrosa alluvione, ci dirigiamo alla volta di Douz. Per raggiungere Douz, la porta del deserto, attraversiamo Chott El Jerid, un vastissimo lago salato, che caratterizza la parte centro-occidentale della Tunisia. Una distesa senza apparenti confini, si apre ai nostri occhi pieni di meraviglia… Una pianura sterminata che assume, nella parte bagnata da pochi centimetri d’acqua, una colorazione rosa-fucsia per le microalghe presenti nel basso specchio acqueo.
La notevole temperatura che anche oggi rende torrido un giorno di novembre, evidenzia il fenomeno di miraggi che in questa landa sconfinata si manifestano frequenti. Immagini tremule e riconducibili ad ologrammi sconosciuti, si stagliano all’orizzonte assumendo nei viaggiatori desertici in nome di “Morgana”, come le mitiche fate lontane dal concreto percepire. Ci incantiamo ad osservare queste forme indistinte che sembrano staccarsi dalla linea dell’orizzonte, per poi ricadervi ed unirsi ancora per qualche istante, come in una danza ancestrale. Solo il passaggio veloce di camion e qualche vettura sul lunghissimo rettilineo che taglia in due il lago salato, ci riporta alla realtà, ricordandoci che le piadine sul fuoco sono pronte per la farcitura.
Ultimato il fugace pranzetto, chiuso da frutta e dolci al miele e dattero, acquistati nel mercatino dell’ultimo paese che si affaccia sul lago, riprendiamo la marcia alla volta di Douz, dove passeremo la notte in albergo.
Ci sposteremo poi nei dintorni per un primo, per me e mia madre, contatto con il deserto del Grande Erg occidentale, propaggine dello sconfinato Sahara.
Douz
Nel tardo pomeriggio raggiungiamo questa cittadina, che offre ancora l’immagine di caravan serraglio dei secoli andati, ma trafficato ora, non da animali asserviti all’uomo, ma dai veicoli come il nostro, condotti dai viaggiatori desertici. Estesi palmeti fiancheggiano la strada, ormai assediata dalla sabbia in più tratti ed in parte coperta da questa coltre dorata, portata dal vento che spira da sud-est. Dopo esserci rifocillati in hotel, senza rinunciare ad un tonico massaggio nei pressi di un caratteristico hammam all’interno del plesso alberghiero, partiamo verso sud, lasciando alle nostre spalle Douz.
Di questa località, ultimo avamposto prima dell’immensa estensione sabbiosa che ricopre ben oltre un terzo dell’Africa, rimane impressa nei miei occhi l’immagine del mercato locale confinato in una grande piazza quadrata e recintata da un portico, a baluardo delle frequenti tempeste di sabbie sospinte dal respiro delle dune che si stagliano appena fuori il paese. L’Incedere del Wrangler comincia ad essere più incerto, ormai in configurazione quattro ruote motrici, nell’assecondare le basse dune che oramai ci fanno compagnia da alcune ore, e dopo aver percorso circa 60 km tra ampie carrabili di ciottoli e sabbia indurita dal passaggio di grossi camion perlopiù militari, decidiamo di accamparci su un pianoro protetto a sud da alcune dune con rada vegetazione, indicata genericamente “camel grass”, proprio perché ruminata dai dromedari che sporadicamente incrociamo nel nostro procedere.
Il freddo cala in pochi minuti dopo il tramonto ed intorno alle 21 leggiamo sul termometro della vettura la temperatura di 9 gradi… ben 20 in meno che a mezzogiorno. Un freddo che, se non affrontato per tempo indossando perlomeno una felpa con cappuccio sopra un paio di maglie termiche in cotone fioccato, non ci lascerà più neanche nel sacco piumino che ci attende in tenda approntata prima dell’imbrunire. Un bel fuoco illumina il bivacco, e solo il crepitare della legna, ben presente in questa zona del deserto proprio per gli arbusti legnosi che punteggiano le dune, turba il silenzio assoluto che ci abbraccia nella notte africana. Il cielo stellato ci ipnotizza anche questa volta. Assente ogni forma di inquinamento luminoso, pervicace in gran parte degli ambienti europei a forte antropizzazioni, la volta celeste qui appare di un chiarore che sbalordisce. Il profumo del pollo cotto sulla brace, ci ricorda che è il momento di cenare, qui dove le convenzioni sono un lontano ricordo e nessuno ti impone di sederti a tavola ad orari prefissati, come nell’Hotel Mouradi Douz che abbiamo lasciato alle nostre spalle solo da qualche ora. L’appetito certo non ci manca dopo aver percorso una traccia flebile riportata sul cartografico, con una marcia lenta e tormentata da continui sobbalzi tra dune e catini sabbiosi, ed aver approntato il bivacco per la notte, disponendo sedie e tavolo apparecchiato, insieme alle tende ed i materassini con i sacchi a pelo.
Monte Tembaine
Al mattino presto riprendiamo la marcia dopo la colazione, un po’ infreddoliti da una insolita umidità per la stagione autunnale qui così in ritardo, e scorgiamo stagliarsi in lontananza il Monte Tembaine, vero faro per le guide locali che mio padre ha frequentato più volte cercando di apprenderne, con la fatica di un europeo avvezzo alla urbanizzazione, ogni esperienza possibile.
Procediamo in quella direzione per buona parte del giorno, incrociando una carovana di dromedari con al seguito due famiglie di pastori, da cui si separano cinque bambini festosi che ci vengono incontro. Passiamo insieme alcuni minuti, ricambiando quei sorrisi che ci spalancano l’animo, con un pacco di biscotti ed alcune penne bic con annessi quaderni, che mio padre ha portato a questo scopo. Queste famiglie di etnia beduina si differenziano dai berberi, che troveremo tra qualche giorno a sud est del paese, per la stanzialità di questi ultimi che notoriamente abitano le case troglodite. I beduini invece sono nomadi ed attraversano il Maghreb nelle zone appena sfiorate dall’antropizzazione, dediti alla pastorizia e vendita di animali, che conferiscono nei mercati delle cittadine di confine al deserto, proprio come Douz.
Rimaniamo colpiti dal distacco austero, sebbene un sorriso alberghi sul viso dei pastori che per un po’ ci attorniano anche dall’alto dei dromedari sellati, di questo popolo fiero e davvero libero nel senso più intimo del termine, portandoci alla mente il confronto con la nostra comunità per tanti aspetti vacuamente anarcoide fino al ridicolo, vista la nostra dipendenza da un sistema sociale rigidamente strutturato e burocratizzato sino all’inverosimile. Non riusciamo a comunicare in nessun modo con questi individui con cui vorremmo trascorrere piacevolmente gran parte del tragitto nel deserto, e neppure il francese che mastica mia madre, viene compreso dai carovanieri. Mio padre balbetta le poche parole in arabo che ricorda, retaggio dei viaggi trascorsi, e dopo aver stretto la mano dopo averla portata al cuore, ai soli uomini della compagine, imitato prontamente da quest’ultimi sorridenti e grati per i piccoli doni ai loro bambini, risale in macchina insieme a me e mia madre. Le donne sono rimaste alcuni metri più in là, con i bimbi in braccio a nascondere il volto in gran parte velato, come tutto il corpo del resto. Ci hanno scrutati con palpabile diffidenza, che noi abbiamo ricambiato con l’imbarazzo di chi non riesce a comunicare verbalmente, il piacere immenso che ci ha donato il loro incontro.
Ultima notazione la presenza di due levrieri, snelli e dal corto pelo lucido del colore della sabbia qui ancora chiara, di una eleganza che io non ho mai riscontrato in alcun cane sino ad allora.
Riprendiamo la marcia verso una località ancora più remota, Ain Ouadette , nota a tutti i viaggiatori per il piccolo lago con acqua che affiora a circa 30 gradi centigradi, dove bagnarsi costituisce un rituale ineludibile.
Dopo il bagno in pieno relax, allestiamo il campo a qualche centinaio di metri da lì, se non altro per evitare che la fauna locale, costituita principalmente da dromedari, antilopi e fenech, che di notte vengono ad abbeverarsi, possano essere ostacolati o disturbati dal nostro accampamento.
Ksar Ghilane
Il mattino seguente appena dopo l’alba, riprendiamo la marcia, risalendo a nord est verso Ksar Ghilane, oasi irrinunciabile per la sua amenità, che raggiungeremo nel tardo pomeriggio, e dove allestiremo il campo nei pressi di un fortino romano posto su una altura che domina il palmeto dell’oasi distante pochi chilometri.
Preferiamo fermarci lì perché ormai l’oasi è divenuta di fatto una affollata meta turistica da pacchetto di tre giorni acquistabile da catalogo delle agenzie turistiche. Piccoli bus turistici dieci posti e grossi Land Cruiser sette posti, condotti da autisti con folcloristica kefiah d’ordinanza, sbarcano frotte di nordeuropei ed orientali, che, dopo il bagno di rito nella pozza di acqua termale posta al centro dell’oasi, affollano i negozietti che traboccano di souvenir, chincaglieria e bibite gasate. Noi rimaniamo in disparte, non per altero snobismo, ma solo per non distogliere la nostra attenzione dal paesaggio che ci circonda, ben alieno da tanta rumorosa intrusione. Mio padre mi racconta di quando giunse qui ventuno anni fa, la prima di tante altre volte, allora in moto da enduro con altri suoi amici, e rammenta che l’asfalto, che ora facilita e di molto il raggiungimento di Ksar Ghilane, si fermava 80 chilometri più a nord, impedendo ai mezzi stradali di raggiungere tale meta, appannaggio solo di pochi viaggiatori, animati da puro spirito pioneristico.
Beni Khdèche
Il mattino seguente ci attende un lungo trasferimento su asfalto alla volta delle città del versante sudorientale della Tunisia. Giungiamo a Medenine,che attraversiamo nella ricerca di una stazione di servizio che ci consenta finalmente di rifornirci di gasolio…
di ufficiale distribuzione e non di contrabbando con provenienza libica, giungendo poi a Beni Khdèche, dove dormiremo al Ksar Jouamaa, un alloggio ricavato da caverne della collina omonima, con letti in pietra e pagliericci di fogliame, del tutto spogli di ogni arredo.
Matmata
Il mattino seguente, dopo una colazione a base di uova sode e datteri, ripartiamo alla volta di Matmata famosa per le case scavate in ipogei di arenaria, abitate dai berberi trogloditi. Appena giunti alle porte del paese, veniamo affiancati da un ragazzo in ciclomotore che, con un sorprendente italiano, ci invita a seguirlo per una visita guidata al prezzo di venti dinari, circa sette euro.
Estremamente gentile e prodigo nel soddisfare ogni nostra domanda sul luogo e le sue peculiarità, ci conduce in una casa berbera, dove siamo accolti dalla padrona di casa, che ci fa accomodare offrendoci the alla menta e focaccia con marmellata di fichi. La signora è attorniata dai suoi tre bambini nati …uno dietro l’altro, che hanno rispettivamente sei, sette ed otto anni, e ci sorridono da dietro l’ampia veste della madre, dove si nascondono, schernendosi e sospingendosi a vicenda.
Anche a loro offriamo dei biscotti farciti al cioccolato, molto graditi e ricambiati con gli ormai consueti sorrisi, che ci colpiscono sempre per la loro disarmante spontaneità.
Lasciamo qualche dinaro per la colazione, dopo aver visitato l’ampia abitazione costituita da nove stanze tutte ben arredate con ampi tappeti in lana e mobili su misura allocati nelle nicchie scavate nella roccia. Congediamo la nostra guida e torniamo a passeggiare per Matmata, raggiungendo, a pomeriggio inoltrato, l’albergo Marhala dove trascorreremo la notte. Naturalmente è anch’esso rigorosamente ricavato da scavi nella collina ed arredato in modo ….francescano.
Tataouine
Il giorno seguente, faremo un’ultima puntata a sud, raggiungendo Tataouine, altra celebratissima enclave berbera, dove raggiungiamo la collina dei “sette dormienti “, un luogo davvero suggestivo, dominato da un villaggio edificato secoli orsono, ed ora abbandonato e diroccato dopo un sisma la cui memoria si perde nella notte dei tempi.
Verso mezzogiorno, dopo un pranzo in una locanda fuori paese a base di “shorba” –( tipica minestra brodosa)-, con cous-cous e verdure cotte nel tajine con carne di montone, rivolgiamo ora lo sguardo a nord, ormai sulla via del ritorno.
El Jem
Pernotteremo a El Jem, per visitare il giorno successivo, un anfiteatro romano, davvero un Colosseo in piccolo, in eccellente stato conservativo.
Ci dedichiamo all’acquisto di prodotti di artigianato locale e, lasciato l’albergo, percorriamo velocemente il tratto autostradale che ci separa da Tunisi, dove ci attende il traghetto che a notte fonda, staccherà gli ormeggi per riportarci in Italia.
Il Rientro
Frastornati per le tante emozioni che solo ora riusciamo a metabolizzare, riuniamo le idee intorno ad un tavolo del ristorante, attorniati dai consueti gruppi di famiglia tunisini diretti principalmente a nord Italia, dove sono emigrati anni fa come ci riferiscono i capifamiglia, gioviali ed inclini alla conversazione, che ricambiamo con la curiosità che ci anima vicendevolmente. Si parla della situazione politico-economica della Tunisia, non confrontabile evidentemente con quella italiana per status sociali e stabilità politica. Traspare dalla conversazione, la consapevolezza dei nostri interlocutori di essere dei privilegiati rispetto ai loro connazionali, che cercano incessantemente di raggiungere l’Italia anche a rischio della propria vita. Convengono con noi, che le parabole televisive orientate verso l’Europa, offrono una visione in gran parte edulcorata della vita reale dalle nostre parti, ma comunque una prospettiva di marcato benessere, se paragonata alla loro economia nazionale in gran parte rurale e senza possibilità di tangibile miglioramento. In alcuni remoti luoghi montuosi dell’estremo sud est o nelle oasi di montagna a nord ovest, abbiamo avuto la sensazione di essere immersi nel medioevo, con contadini a dorso di mulo
e bambini scalzi che raccolgono verdura ai margini dei sentieri sterrati.
Il tutto però in un clima di riconciliazione con la natura e con una palpabile e diffusa serenità, evidenziata dall’onnipresente sorriso dei bambini festanti, che porterò a lungo nel mio cuore.